Che dire del Kenya, un paese africano che,
nell’immaginario collettivo, rappresenta un sunto dell’intero Continente
Nero. Negli anni del primo boom dell’Africa, siamo nel 1985, questo paese
rappresentava il giusto connubio tra esotismo e sicurezza per il turismo.
Fiorivano dal nulla villaggi vacanze e alberghi lussuosi costruiti dai
vari stati europei per dare una facile risposta alla voglia di “selvaggio”
che c’è dentro ognuno di noi.
Si parte con il volo charter di un viaggio organizzato, considerato che è
quello che costa meno, ma con l’idea di uscire un po’ dagli schemi
presentati da tutti i tour operator, che propongono prevalentemente mare,
relax e safari rigorosamente in gruppo.
Arrivati in albergo per prima cosa apprezziamo, perché negarlo, le
comodità messeci a disposizione e gustiamo il mare (è la prima volta
dell’oceano Indiano) anche se non ci appare proprio come quello delle
cartoline.
Nel frattempo si cerca di organizzare un giro nell’interno del paese.
La cosa si concretizza alcuni giorni dopo quando partiamo verso sera
imbarcandoci a Monbasa su di un treno con destinazione Nairobi. Il viaggio
occupa tutta la notte, anche se i chilometri non sono poi molti, ma la
cosa è dovuta in parte a problemi logistici (non sarebbe pratico arrivare
troppo presto al mattino) ed in parte a problemi tecnici (le locomotive
sono dei primi del ‘900).
Il fascino è però innegabile, sembra di salire su quell’Orient Express
tanto presente nei romanzi gialli e d’avventura, quando con enormi sbuffi
di vapore ed il classico rumore degli stantuffi il locomotore inizia a
muoversi sui binari.
Ci accorgiamo subito che il fascino è però l’unica cosa che resta di quel
treno che sicuramente ha visto tempi migliori e si è fermato, così
com’era, quando sono andati via gli inglesi che ce lo avevano portato,
costruendo anche una discreta rete ferroviaria. Tralasciando le tovaglie
strappate ma di lino, le ceramiche sbeccate ma originali, le posate non
troppo pulite ma d’argento, il viaggio è piacevole.
Dopo un sonno breve ma profondo ci svegliamo alle prime luci dell’alba, in
tempo per vedere nel panorama che ci scorre davanti dal finestrino, le
luci dei villaggi provenienti dai falò ancora accesi.
L’abbinamento, solito, con l’immagine di un presepe è banale ma
assolutamente realistico.
Nairobi ci lascia un po’ delusi, così come è naturale per una città che
nel centro dell’Africa vuole apparire con un profilo occidentale, ma che
ne rappresenta solo un surrogato.
Noleggiata un’auto ci organizziamo per il viaggio di ritorno verso Monbasa
studiando un percorso che, attraversando i principali parchi, ci
permetterà di vedere quanto di meglio offre questo paese o per lo meno
quanto di quello tanto reclamizzato. Dal Masai Mara in poi verso gli altri
parchi naturali, i percorsi si
snodano tra polvere e sole, tra animali che si lasciano quasi toccare
(gnu, gazzelle, leoni intenti a mangiare i due di prima…) e quelli che si
intravedono nella loro maggiore riservatezza (leopardi, rinoceronti, …).
La sera ci accolgono sempre dei semplici ma confortevoli Lodge, dove prima
del meritato riposo, ci permettiamo sempre un bagno in piscina al chiarore
della luna, anche se sono sempre presenti i vigilanti armati che ci
guardano a vista, non so se per la nostra sicurezza o per la loro
curiosità.
Nella maggior parte dei percorsi a volte da lontano a volte più vicino, ci
sovrasta sempre la mole massiccia del Kilimangiaro, con la sua cima quasi
sempre innevata.
Dalla bacheca di un Lodge ci fa l’occhiolino una proposta di trekking di
tre giorni alle falde del vulcano, per un attimo, ma solo per un attimo,
pensiamo di andare, ma poi con la comoda scusa di non avere (forse)
abbastanza tempo desistiamo dall’impresa. In effetti siamo un po’ pigri
per certe cose.
Attraversando la terra dei Masai ci fermiamo in un villaggio dove
tradizione e nuove abitudini si incrociano stridendo.
Intanto per farci entrare il capo del villaggio ci fa pagare una tassa
d’ingresso, che però (bontà sua) comprende anche il permesso di fare
fotografie.
Notoriamente i Masai sono una popolazione seminomade e vivono
esclusivamente di pastorizia, prevalentemente mucche e capre, in quanto
ritengono la coltivazione della terra una attività poco nobile.
Il villaggio è a pianta rotonda ed è circondato da alti cumuli di
sterpaglia secca dura e spinosa, che impedisce agli animali di uscire dal
recinto. Le capanne sono rotonde, di paglia e sorrette da piccoli pali con
il tetto fatto mediante un impasto di fango e sterco di mucca, in una
completa simbiosi tra uomo e animale.
La quantità di mosche che circolano nell’aria è veramente incredibile, ma
date le circostanze citate non stupisce più di tanto, e si concentra nei
punti più umidi del corpo umano, occhi, naso e bocca.
I più colpiti sono ovviamente i bambini piccoli, che nella fascia in cui
vengono tenuti dalle madri sulla loro schiena, non potrebbero neanche
volendo scacciarle in qualche modo.
Qui ci accorgiamo che la merce di scambio più pregiata è il collirio per
gli occhi, oltre curiosamente ai contenitori vuoti dei rullini fotografici
che gli uomini usano per allargare i fori nei lobi delle orecchie.
I contrasti come sempre affascinano, anche se a volte lasciano un po’ di
amaro in bocca.
Il ritorno al lusso programmato degli hotel della costa ci riporta in
quell’aurea di benessere alla quale siamo, nel bene o nel male, abituati e
chiude un’avventura che, come tutte, ci farà crescere stimolandoci a
percorrere in altri tempi, altre strade in altri luoghi. |
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