INDIA - 2000
Quasi un diario, per le impressioni di un mondo "a parte"

DELHI e RAJASTHAN

Dopo due anni dalla prima ipotesi di un viaggio in India riusciamo a mettere insieme tutte le variabili possibili per organizzare un viaggio che prevede il giro del Rajasthan con almeno una escursione a Varanasi.
Si parte da Genova a metà marzo e poiché non c’è la coincidenza diretta pensiamo bene, per non perdere tempo, di fare uno stop-over a Parigi con un pernottamento in un'alberghetto del centro, tanto per fare un giro nel quartiere latino e gustarci un’ottima zuppa di cipolle. Il giorno dopo partiamo da Parigi alle 10.00 per arrivare a Delhi alle 23.00 con 4 ore e mezzo di differenza di fuso orario (in effetti mi ha sempre incuriosito il mezzo).
Il caldo che ci assale scendendo dall’aereo è il solito che si trova a queste latitudini (caldo soffocante di umidità, nonostante l’ora notturna) ma in considerazione al freddo che abbiamo lasciato in Europa, risulta tutto sommato gradevole. All’uscita dell’aeroporto (veramente brutto per essere quello di una capitale), dopo la trafila burocratica, troviamo la consueta folla di personaggi variopinti che offrono il cambio, che facciamo per una prima disponibilità di moneta, ed il taxi, che prendiamo anche se è scassato, visto che in qualche modo dobbiamo arrivare all’hotel. Siamo finalmente in India!
L’albergo di Delhi, prenotato via internet (anche se credo non sappiano neanche cosa sia) è decisamente brutto o per meglio dire è abbastanza bello per lo standard locale, escludendo, come facciamo quasi sempre, gli alberghi internazionali. Infatti c’è l’aria condizionata (che non funziona), c’è l’acqua calda (che è solo tiepida), ci sono le lenzuola pulite (ma macchiate) e costa ben 700 Rps (circa 33.000 lire) per tre persone. Ma tutti questi sono dettagli poco significativi ai fini del viaggio. Al mattino speranzosi aspettiamo che arrivi la macchina con l’autista, prenotata via internet (vedi quanto sopra) che doveva essere davanti all’albergo alle nove, ma invano. Il problema del muoversi in maniera autonoma in India è quasi obbligatoriamente legato al noleggio di un’auto con autista, in quanto è praticamente impossibile avere un’auto a noleggio da sola per problemi principalmente legati ai controlli della polizia lungo le strade. Discorso a parte è quello dell’uso degli autobus e dei treni, che pur essendo sicuramente più affascinante presuppone una disponibilità di tempo decisamente maggiore. Non avendo riferimenti telefonici si decide comunque di non perdere tempo in vane ricerche per cui partiamo all’assalto di Delhi con un classico rickshow. La prima meta è ovviamente il Red Fort che, come tutte le strutture di tipo militare, rappresentava il punto di forza di una città e colpisce con questa aurea di austerità quasi ascetica che sempre si contrappone al clamore esterno di vie e mercati. La visita, che è d’obbligo, risulta piacevole ed istruttiva, ma come sempre non vediamo l’ora di uscire per immergerci nella quotidianità cittadina. La via principale della Old Delhi è un immenso brulicare di vita, dove tutte le attività vengono svolte all’aperto o al massimo in piccoli antri bui che si affacciano sulla via. Si va dai pochi negozi con una pretesa immagine occidentale, dove si trova tutto quanto di brutto si possa pensare di volere, con un particolare inno alla plastica più scadente, a quelli che espongono prodotti locali che, piacevoli o meno, rappresentano almeno quella specifica cultura in tutte le sue sfumature che si esaltano in modo particolare nelle venditrici di oggetti vari che provengono dai paesi circostanti. A circa metà della via, compresso tra i palazzi, si trova un tempio che scopriamo essere Sikh, una religione da noi poco conosciuta, che decidiamo di approfondire. Un fedele con funzione di guida ci conduce all’interno del tempio, spiegandoci le principali caratteristiche della sua religione e delle sue implicazioni sulla vita comune dei suoi seguaci. Un esempio fra tutti la presenza di una cucina comune, a disposizione di tutti quanti abbiano bisogno di mangiare, che viene mantenuta con il contributo di tutti i fedeli, nella quale ci attardiamo per cortesia e curiosità mangiando alcune focaccine di farina ed una strano impasto di riso che ci viene fornito direttamente dalle mani di un fedele che in quel momento svolgeva le funzioni rituali. Infatti in questa religione non esistono ministri di culto permanenti ma tale attività viene espletata a turno tra i fedeli. Rientrando in albergo troviamo anche il tempo ed il modo di prenotare auto ed alberghi in una agenzia locale e come sempre speriamo che vada tutto bene. Partiamo così per Nawalgar, nel centro del Shekhavati, regione famosa per le sue Haveli, case spettacolari costruite dai ricchi mercanti del posto, nel periodo del commercio delle spezie, trovandosi nelle tappe classiche della via della seta. L’ambiente è quello tipico dei centri urbani rimasti, con il passare del tempo, ai margini delle ricchezze, perdute con la fine dei commerci terrestri dopo l’apertura del porto di Bombay. L’atmosfera è di stampo antico, forse medioevale, dove ovunque regna polvere e rumore, ma con un tono rilassato e distaccato dalla frenesia delle moderne città. Le Haveli sono veramente dei capolavori nel loro genere, costituito da trafori in pietra di una finezza incredibile, degna dei migliori artisti del genere, ma dopo averne viste alcune si rischia l’ubriacatura, per cui decidiamo di continuare il viaggio. Dopo 300 Km di deserto arriviamo a Bikaner. La città è quanto di più vivo ci si possa aspettare dopo tanto niente per giungervi. La visita al castello dà inizio al nostro giro, la struttura è veramente ben conservata in quanto ancora di proprietà del Raja del posto e pertanto richiede una visita accurata. Ma come sempre è la vita che sta fuori che ci prende completamente in tutti i sensi. Appena varcata la porta principale della città ci troviamo immersi in una umanità multicolore, multiodore e multirumore, insomma di tutto e tutto assieme. Ed è qui, per la prima volta, nonostante le molte esperienze in città asiatiche piccole e grosse, ci troviamo imbottigliati in un enorme ingorgo formato solo da pedoni, biciclette, motorini e rickshow, siamo assolutamente impossibilitati di muoverci anche di un solo metro! Solo dopo dieci minuti di clacson forsennati e grida varie, il blocco si scioglie improvvisamente ed il traffico riprende con il suo normale ritmo, lento quasi fermo. Nel mezzo di tutto questo, ci dirigiamo lentamente verso un angolo di pace e serenità, costituito da un tempio Jain con una serie di pareti e volte, sia di arenaria che di marmo, con degli intarsi mozzafiato di una raffinatezza unica. Partiamo nel pomeriggio e dopo oltre 5 ore di strada in un torrido deserto (il Thar è infatti una delle più vaste aree desertiche del mondo) arriviamo a Jaisalmer in albergo. La fortezza è arroccata su di uno sperone roccioso ed è veramente impressionante, nella sua imponenza, vista dal basso della città. Anche se non è ben conservata come quella di Bikaner è comunque uno spettacolo di grande qualità e rende perfettamente l’idea di come doveva essere la vita nel periodo d’oro dei Raja, almeno per quanto riguarda la loro vita. Scendendo verso la città facciamo il solito giro sui mercati, questi più semplici ed anche più ordinati, dispersi in un fitto dedalo di viuzze relativamente pulite e tranquille. E così inevitabilmente, in un modo o nell’altro riusciamo sempre a comperare qualche cosa. Colti da un raptus da turista standard, riusciamo a fare una cosa che dall’inizio avevamo previsto di non fare, ma succede, grazie anche all’insistenza dell’autista, che immagino abbia il suo interesse, come quando cerca di portarci in qualche fabbrica di souvenir. Così ci troviamo imbarcati per un trekking di mezza giornata a dorso di cammello (o per meglio dire dromedario) con attesa del tramonto sulle dune di sabbia, compresa una cena a lume di candela, ma rigorosamente vegetariana. Poiché ogni cosa che si fa può avere risvolti imprevisti, rinunciando ad un po’ di cena (fattore strategico anche in considerazione della qualità del cibo) faccio un giro dietro le dune e mi trovo su di un sentiero utilizzato dalle donne del vicino villaggio per il rifornimento serale di acqua potabile. Le donne, prevalentemente giovani, affascinanti nei loro vestiti coloratissimi, devono però percorrere circa un chilometro, che è la distanza che separa il villaggio dai due pozzi scavati a filo terra in pieno deserto. L’acqua viene tirata su a forza di braccia con un secchio di plastica legato ad una corda e poi versata in orci di ottone di circa 10 litri che vengono trasportati poggiati sulla testa. Situazione decisamente diversa da quella di aprire un rubinetto con due dita! Superata anche questa “avventura”, la mattina, dopo un ulteriore attraversamento del deserto, arriviamo a Jodhpur. Il primo appuntamento è per il forte della città, anche questo arroccato su di un tavolato con pareti così ripide da farlo ritenere imprendibile, ma la storia ci dice che così non fu. A parte questo è molto bello e si visita bene, infatti si arriva in alto al palazzo del Raja con l’ascensore e poi si scende a piedi, attraversando tutte le porte messe a difesa del complesso con grande senso di strategia militare. Una visita che invece potevamo evitare è quella al palazzo nuovo (circa 1920) dove lo sfarzo e la megalomania si intrecciano in un balletto anacronistico e di dubbio gusto, anche se adesso, con buon senso degli affari, è stato trasformato in parte in albergo ed in parte in museo. La sera si cominciano a vedere le prime avvisaglie di una manifestazione (una tra le più importanti in India) che si fa il 20 marzo in concomitanza con l’equinozio di primavera. La festa di Holi coinvolge tutti ed oltre ai tamburi che in un continuo ritmico assordante riempiono l’aria, si usa gettarsi addosso acqua colorata o direttamente polveri dai colori smaglianti per festeggiare l’addio all’inverno. Sentendo le raccomandazioni accorate dell’autista, che forse teme per la nostra incolumità, ci prepariamo a passare la mattinata in albergo, che per fortuna è anche carino, nuovo e con un piccolo giardino, in quanto anche lì ci dicono che è una follia uscire per andare in mezzo alla gente che gira in piccoli gruppetti con i colori pronti al lancio. Ma l’esitazione dura molto poco e non resistiamo al fascino di una nuova piccola esperienza, indossati abiti da poter buttare, usciamo fuori. Veniamo immediatamente circondati da gruppi festanti di uomini e donne che, ognuno con colori diversi, ci tingono da tutte le parti, dai capelli alla faccia sino ai piedi. Moltissime donne partecipano alla festa, anche se in modo più tranquillo e così ci aggreghiamo ad un gruppo di loro che ci porta nelle loro case per farci vedere il successivo “lavaggio” dei bambini ed offrirci te e dolci tipici. E’ un’esperienza veramente singolare ed unica. Nel pomeriggio andiamo ad Osijan, paese a 65 Km da Jodhpur che si propone per la presenza di un gruppo di templi Jain tra i migliori che si possono vedere. Infatti troviamo un insieme di strutture architettoniche tra le più ben conservate, oltre ad un centro di restauro che riproduce le sculture deteriorate con gli stessi mezzi di un tempo, cioè punta e mazzetta! Ma sicuramente la cosa più curiosa è rappresentata dai fedeli che incontriamo. Infatti non appena siamo nei dintorni del tempio ci imbattiamo in alcuni uomini perfettamente nudi che si apprestano ad entrare. Appartengono ai Digambara, che è la parte dei Jainisti (anche in questa religione c’è stato uno scisma) che è rimasta fedele ai più rigidi insegnamenti degli antichi maestri che predicavano l’assoluta povertà e la mancanza di possesso, anche nei vestiti. Unica eccezione è rappresentata dal libro delle preghiere e da una specie di scopino fatto di piume di pavone che gli serve per pulire per terra la strada che poi calpesteranno per evitare di uccidere gli anomali, anche i più piccoli ed ai nostri occhi insignificanti. Le donne, che sono tutte vestite in una tunica bianca, portano sulla bocca una specie di mascherina per evitare di ingerire accidentalmente gli insetti presenti nell’aria. Inutile dire che sono assolutamente vegetariani, e non come quelli che talvolta incontriamo anche in Italia, infatti questi non si nutrono di nessun derivato animale (latte, formaggio, uova, …) e si vestono solamente con abiti di fibre vegetali. Per analogia, la cena all’hotel è decisamente nello stile, per mangiare una serie di piattini di verdure con salse varie a base di cumino e coriandolo, impieghiamo circa due ore e mezzo che però passiamo conversando con l’autista mussulmano che ci racconta che sta risparmiando soldi per il suo prossimo matrimonio, dove prevede di invitare circa 700 persone.
La mattina seguente arriviamo a Ranakpur. L’aggettivo di migliore si spreca spesso in queste situazioni, ma in effetti il tempio principale di Ranakpur è quanto di più bello ci si possa aspettare da questo tipo di architettura. E’ notevolmente più grosso di tutti quelli già visti sino ad ora ed è costituito da quattro cupole sorrette da 1444 colonne tutte diverse tra di loro. La foresta che circonda il sito è ridotta ai minimi termini dalla siccità dovuta al mancato monsone dello scorso anno, per cui accaldati, ma soddisfatti, rientriamo alla base.
La mattina partiamo per Udaipur, la strada non è molta ma si snoda tra i monti Aravali, stretta e tortuosa, ma attraversa una zona molto fertile e ricca di acqua dolce dove si ritrova un’intensa vita rurale che mi riporta ad immagini di altri tempi, evocando una quiete oramai dimenticata. Questo aspetto non deve certo far dimenticare la durezza di tale vita e la fatica quotidiana di uomini e donne impegnati da sempre in un delicato equilibrio tra la gioia di vivere e la pura e semplice sopravvivenza. Il paesaggio scorre tra campi di grano irrigati con canali alimentati da rudimentali norie che utilizzano la secolare pazienza dei buoi e delle donne che, nella luce rossa del tramonto in piccoli gruppi silenziosi, portano l’acque alle loro case, dopo aver attinto direttamente da antichi pozzi scavati e aperti a filo terra oppure da “moderni” pozzi con più comode e funzionali pompe a mano. “Small is beautiful”, è così che in questi momenti penso sempre a come, in queste situazioni ambientali e sociali, sarebbe più produttivo poter donare oggetti semplici e facilmente gestibili piuttosto che moderne complessità o beni di consumo a pioggia! Anche la mietitura viene fatta dalle donne con piccoli falcetti, raccogliendo le messi in piccoli covoni, che formano armoniosi e leggeri disegni sui campi. Poco lontano, vicino alle case, altre donne procedono ad una attività molto comune che consiste nel disporre in verticale sui muretti dalla parte del sole, gli escrementi delle mucche. Questi, una volta secchi cadono e vengono “confezionati” in formelle rotonde che vengono poi impilate in forme originali, che spesso assomigliano a vere e proprie casette, per poi essere utilizzate in seguito come combustibile o portate al mercato per essere vendute. La posizione di Udaipur in mezzo ad una serie di laghi presenta una vista decisamente diversa dalle altre città, anche se il livello dell’acqua è decisamente basso ed il colore non è quello delle cartoline, infatti assomiglia di più ad uno stagno che non ad un lago. Il City Palace è un insieme di palazzi comunicanti costruiti dai vari raja che lo hanno abitato, non ha l’austerità dei castelli del deserto e a ben vedere, oltre all’aspetto architettonico complessivo comunque interessante, risulta più che altro una mescolanza, non sempre riuscita, tra gli stili indu e arabo con la parte più kitch dello stile europeo. La città risulta diversa anche per una impronta di maggior ordine dovuta alla mancanza del classico mercato sovraccarico di rumori, odori e colori che nelle altre città viste animava le strade del centro. Qui i negozi si susseguono precise e ordinati lungo le vie centrali che portano al palazzo e la loro mercanzia risulta più visibile, ma chiaramente con un’impronta più turistica. Il Lake Palace, tanto decantato palazzo nel lago, pur con tutto il suo innegabile fascino, risulta un po’ smorto, nelle scarse e scure acque del lago. Un po’ per questo ed anche perché il prezzo di una stanza è decisamente alto (è valutato solo in dollari americani) decidiamo per un altro hotel, diciamo normale.
La strada per Ajmer e Puskar è nuovamente lunga e attraversa un ondulato altipiano a volte arido e a volte ricco di campi e di vita, che interrompiamo per la visita a due templi induisti. Il primo a Nagda è oramai abbandonato ma è talmente ricco di incisioni che appare come una perla archeologica sprofondata com’è in una quiete bucolica, rappresentata da campi di grano con silenziosi contadini intenti ad una mietitura di sapore arcaico.
Il secondo lo incontriamo a Shi Eklingji ed è completamente diverso da quello precedente in quanto vivo di una notevole presenza di fedeli che lo raggiungono da tutto il paese. Entriamo nel momento in cui iniziano le cerimonie e lo spettacolo è decisamente affascinante nella sua diversità e nel rigore che pervade. Infatti qui non si può fotografare, cosa curiosa per questo popolo che ha normalmente il sorriso pronto ad ogni scatto fotografico ed un naturale approccio alla comunicazione. Inoltre il procedere scalzi è richiesto già dall’esterno del tempio e non si può neanche barare, come qualche volta si fa, mettendosi i calzini. Dopo l’attraversamento di Ajmar, città commerciale abbastanza anonima ma brulicante di vita e di caos, dove peraltro troviamo il tempo di acquistare una “tabla” (un tamburo tipico del posto), proseguiamo per Puskar. L’arrivo in quella che è riconosciuta come una città sacra, è segnato da una differenza sostanziale, non ci sono rickshow ed anche i motorini sono rari, sembra incredibile. E’ vero che questa è considerata una città santa, ma la differenza è davvero notevole. Tra i tanti modi per fare un po’ di soldi da parte degli abitanti, qui ci sono i bramini (la casta dei religiosi o presunti tali) che agguantano ogni turista che arriva per fargli fare una specie di iniziazione con preghiera finale sul lago. Indipendentemente da tutto, oltre ad un certo fascino, la cosa ci permette, con un obolo di 50 o 100 rupie, di essere poi lasciati in pace, grazie ad un opportuno braccialetto multicolore, per il resto della giornata. Insomma, una specie di tassa di ingresso alla città, come ora usa anche in occidente. Subito dopo veniamo attratti da suoni e canti provenienti da un tempio, dove dopo essere entrati, scopriamo essere in atto una cerimonia speciale, legata ad una particolare ricorrenza di Vishnu. Anche questo spettacolo è molto interessante e ci evidenzia la complessità del mondo religioso indu. I festeggiamenti continuano sino a sera e si concludono con una processione lungo le vie del paese con sfilate di statue, suonatori, ecc… La casualità dell’essere in un posto specifico per un evento che avviene una sola volta in un anno mi ricorda, oltre alla festa di Holi vissuta a Jodhpur, la cerimonia a cui abbiamo assistito a Bikaner, dove in quel giorno abbiamo assistito ad un raduno, organizzato in un apposito spiazzo sotto lo sguardo attento di un reparto di polizia indu, dove migliaia di mussulmani (solo uomini) erano convenuti da tutti i paesi vicini per quell’evento straordinario. La sera a Puskar è d’obbligo assistere al tramonto del sole dietro ai templi, che innumerevoli circondano il piccolo lago circolare, dove gli indu si recano per le giornaliere abluzioni nelle sue acque ritenute sacre, anche se non necessariamente pulite. Forse per questa sacralità o forse per questa sensazione di serenità, comunque comune per un paese di 1300 abitanti, il luogo è diventato meta di una nuova generazione di hippy, facilmente distinguibili dai locali perché sono gli unici, esclusi i pochi santoni ed i mendicanti, che si vestono all’indiana e viaggiano scalzi. Infatti tutti gli abitanti del posto si vestono normalmente all’europea, anche se male. Insomma una situazione di assoluto disequilibrio. La sera invece rimarrà nei nostri pensieri in quanto la cena è stata in assoluto la peggiore tra tutte quelle mai collezionate in giro per il mondo, la giustificazione è che tutta la città osserva rigorosamente il rispetto più stretto per i cibi vegetariani, cioè cucina Vegana. L’escursione di mezza giornata ad Ajmer ci permette di vedere una delle principali moschee di tutta l’India in quanto luogo dove è la tomba del fondatore della dottrina Sufi nel paese. L’area della moschea è enorme e contiene, oltre al reliquario, anche un ricco mercato di fiori e di vari altri oggetti di culto. Dopo aver preso anche la benedizione dai seguaci di Allah, usciamo per entrare nel solito mondo del mercato, uno dei più grandi mai visti, che ci assorbe completamente per il resto della mattinata. Tanto per sperimentare un altro modo di viaggiare, il ritorno lo facciamo con un pullman di linea strapieno, colorato di persone e agitato dagli “scrolloni” continui dovuti alla strada che presenta la solita impressionante sequenza di buche. Ritornati a Puskar, dopo un ultimo giro intorno al lago con i suoi 52 templi, ritorniamo in hotel su di un carretto spinto a mano, forse un nuovo tipo di rickshow. La strada per Jaipur (autostrada!!!) è decisamente noiosa e ne approfitto per leggere la storia della città, la più grande del Rajastan. Appena posate le valigie andiamo subito fuori città ad Amber (antica capitale) e ci immergiamo in un flusso turistico piuttosto particolare in quanto sono quasi tutti turisti locali e vi sono moltissime scolaresche, ci ricordiamo così che oggi è domenica ed il luogo diventa anche meta di svago per tutti. Il palazzo-fortezza non è dei migliori, visti tutti i precedenti, ma la posizione è decisamente invidiabile arroccata su di un roccione a sua volta sovrastato da un castello circondato da alte mura con una impressione decisamente cupa. Rientrando facciamo la solita incursione sulle bancarelle di alimentari e mangiamo curiose frittelle piccantissime (l’olio della frittura è decisamente nero) e beviamo un succo di arancia allungato con della normale acqua e come al solito speriamo in bene visto che oramai gli anticorpi ce li siamo fatti nel corso di tutti questi anni. La mattinata è dedicata al palazzo reale ed al suo complesso per la verità piuttosto modesto anche perché la parte migliore è ancora abitata dal Raja. Un discorso a parte va fatto per il How Mahal (il palazzo dei venti) sicuramente uno dei monumenti più celebrati del mondo, che presenta sicuramente un colpo d’occhio notevole da non perdere sia per la famosa facciata che per gli interni.
Il pomeriggio è tradizionalmente dedicato alla visita dei numerosi mercati che sono presenti in città, sono circa una dozzina (ma ovviamente non li vediamo tutti) e sono decisamente più ordinati degli altri in quanto distribuiti lungo le strade principali al piano terra degli edifici di due piani con in portici, praticamente dei negozi. Sulla strada verso Agra attraversiamo fertili zone agricole e si può vedere una nuova forma d’arte rappresentata dai già visti cumuli fatti con formelle di sterco di vacca che vengono impilati e composti nelle maniere più diverse assumendo di volta in volta forme di pagode o di case in miniatura. Prima di arrivare ad Agra visitiamo Fathepur Sickri, costituita da un monumentale complesso di templi, ma che è stata per soli quattro anni la capitale del regno creato da Ackbar dopo l’invasione mussulmana. La città è abbandonata ma conservata benissimo essendo stata poco abitata e da l’idea del genio costruttivo di quel re che aveva costruito e regnato all’insegna di un sincretismo religioso che sarebbe esemplare anche ai nostri giorni. Il palazzo era diviso in quattro parti, una per il Raja e le altre per le tre mogli, una mussulmana, una indu ed una cristiana, nel rispetto di quanto detto sopra. Anche le decorazioni riprendono le caratteristiche delle tre culture distribuite eterogeneamente in tutto il complesso residenziale. Arriviamo ad Agra dove termina il giro del Rajasthan (quasi un anello completo della regione in quanto evitiamo per cpmodità di ritornare a Delhi) e dove lasciamo l'auto con l'autista, che ci ha accompagnato per 20 giorni, per la seconda parte dell'avventura.